Quel termine - che cercherò di non usare - è entrato nell’uso corrente filtrando nella stampa generalista attraverso lanci d’agenzia, che di solito quasi non vengono tradotti e spesso sono usati col taglia-incolla (di questo ho esperienza diretta e personale, senza valore di statistica, chiaramente; e con tutta la stima del caso per la professionalità di tanti giornalisti). Alla ricerca di una parola d’ordine (e gli anglicismi inutili si prestano bene), nessuno sembra essersi preoccupato di fare una semplice ricerca, al contrario di quanto noi traduttori siamo tenuti a fare sempre. Questa ricerca avrebbe prodotto un risultato sorprendente: in Italia esiste un termine che è l’esatta traduzione di quello lì, un termine chiaro e preciso, al contrario - per esempio - dell’orribile e incomprensibile “romanzo grafico”, che ogni tanto fa capolino senza neppure il pudore delle virgolette.
Questo termine è “romanzo a fumetti” (e le virgolette ce le metto per pura convenzione ortografica). Qui probabilmente sarebbero iniziati i problemi (o forse qualcuno le ricerche le ha fatte e i problemi sono effettivamente iniziati), perché nell’industria culturale italiana, o almeno nella comunicazione relativa a iniziative e libri con ambizioni letterarie, il termine “fumetto” pone ancora dei problemi. Non solo per pregiudizi culturali un po’ datati e forse in via di esaurimento, ma che qua e là resistono, influenzando anche studi con i crismi formali dell’accademia (il caso di qualche anno fa intorno a un certo volume della UTET nasceva in primo luogo da una scarsa considerazione per il fumetto da parte dello stesso autore dell’opera - un noto studioso di filosofia teoretica - che non aveva neppure preso in considerazione la possibilità di applicare al suo nuovo lavoro gli stessi criteri di scientificità e pubblicabilità del suo ambito di studi).
Pone ancora dei problemi, secondo me, soprattutto perché non sono ancora superati i motivi storici per i quali il termine “fumetto” evoca in primo luogo letture leggere e svagate, preferibilmente per bambini (identificare e analizzare questi motivi va ovviamente molto al di là della portata di questo post già troppo lungo).
E forse anche l’eufonia gioca un ruolo, e l’orecchio vuole la sua parte. Provate a dirlo a voce alta, virgolette comprese: “fumetto”. Curioso, questo falso vezzeggiativo, non vi pare? E anche un po’ fru-fru. Non può indicare niente di veramente importante.
Vi sembro esagerato? Dubbi residui? Sacrosanto, li avevo anch’io. Poi ho letto questo (penultima risposta) e me li sono tolti. L’imbarazzo nell’utilizzare la parola “fumetti” è evidente, e il tentativo di prenderne le distanze arriva al grottesco: si afferma che, scrivendo e disegnando le opere designate col termine in questione, gli autori (di fumetti? Chissà…) cercherebbero di appropriarsi “di strumenti e tematiche proprie del romanzo”.
Incredibile.
E parliamo di un editore oggettivamente interessato, che ha varato da poco una collana e che sta pubblicando titoli e autori unanimemente considerati interessanti (tra cui un mio piccolo cult personale, come l’amico Nick Bertozzi, verso cui sono assolutamente parziale e di cui parlo e straparlo qui).
Leggo quello che ho scritto ed è certamente un po’ tranchant. Preferirei sbagliarmi, ovvio, e che si trattasse di un semplice caso di “fad” (e chi sono io per non usare un anglicismo inutile?): una moda frivola ed effimera dopo la quale il termine potrebbe consolidarsi o - più probabilmente - finire nel dimenticatoio.
Speriamo che non si porti dietro i libri per cui oggi viene usato. Molti sono belli e importanti e credo che varranno il prezzo da pagare: i tanti bluff che ancora ci aspettano e con cui gli editori cavalcano la moda.
Scusate, il fad.
È successo negli USA, e chi siamo noi per risparmiarcelo?
p.s.: un’altra risposta, più concisa, alla richiesta di Davide è questa: quel termine è una parola-ombrello che viene usata secondo necessità.